Forse il suo insegnamento più importante è stato che per le proprie idee si deve pagare un prezzo ancora troppo salato nel nostro Paese; e che c’è ancora molto da fare per garantire una vera parità di diritti e di espressione
“Ho sperimentato il vomito, ma legato alla mia esibizione pubblica, all’essere diventato un bersaglio. Era la reazione all’odio che provavo nei miei stessi confronti. È iniziato quando ho visto per la prima volta il mio nome sui muri, quando sono stato insultata in fila al supermercato. È finita quando ho capito che non avrei dovuto lasciare che quell’odio entrasse in me”.
Michela Murgia ha usato queste parole nell’intervista ad Aldo Cazzullo pubblicata a inizio maggio sul Corriere della Sera per presentare il suo ultimo libro, Tre Ciotole (Mondadori, 2023), uno dei passaggi in cui racconta cosa ha significato per lei essere un bersaglio politico. Ne ha parlato ampiamente anche altrove, ad esempio in un pezzo pubblicato su Il Post nel 2021, intitolato “Cosa ho capito della fragilità con i BTS”, in cui ha raccontato gli effetti della sua decisione di criticare l’uso del lessico militare iscriviti alla gestione dell’emergenza covid.
“Per giorni mi hanno aggredito personalmente, in una profusione di ostilità personalizzata a seguito della quale sono comparsi graffiti sui muri in vari luoghi di Roma con il suo nome seguito da insulti e imperativi richiami al silenzio. Ho iniziato ad avere paura di andare in luoghi pubblici per paura di essere avvicinata da estranei di cui non potevo prevedere le intenzioni. Ho pianto per ore senza motivo apparente, ho coltivato pensieri di morte e ci sono stati più giorni in cui non riuscivo ad alzarmi dal letto. Ero convinta che nessuna delle scelte fatte fino a quel momento fosse servita a qualcosa, se non a rovinare la mia anima e la mia vita”.
Il costo di quella diffusa ostilità fu inevitabilmente la malattia: dagli attacchi di panico alla perdita di sonno e appetito. “I pochi pasti che potevo consumare da quel momento in poi, li rimettevo subito. Nelle prime settimane di shitstorm avevo perso sei chili, ma nei quattro mesi successivi ne persi involontariamente quindici chili, circondata da persone così condizionate dai canoni estetici attuali che continuavano a ripetermi che ero ‘più in forma che mai’, mentre perdevo i capelli e dovevo prendere medicine per integrare il cibo che non riuscivo più ad assumere”.
È importante tornare su quelle parole, per ricordarci che la Murgia, la donna che oggi è destinataria di parole di amore e riconoscenza, era da tempo un bersaglio pubblico della polemica politica. Si dirà che Michela Murgia è stata divisiva e certamente lo era. Ma è possibile che il prezzo da pagare per essere divisivi oggi sia questo? O forse è più costruttivo chiedersi cosa c’è di così sbagliato nel dibattito italiano da normalizzare continuamente questo livello di violenza?
Djarah Kan ha scritto su La Repubblica il 12 agosto 2023 che “il corpo della nazione cerca costantemente di abortire le sue donne più intelligenti e disobbedienti. Cerca di espellerle, isolarle, denigrarle e condannarle”. Se così fosse – e lo è – dovremmo dirci che la Murgia ci ha dato, tra le tante cose, e suo malgrado, una grande rivelazione. La possibilità di riconoscere la misoginia violenta che costituisce il canone culturale e politico di questo Paese. Dire che il canone culturale e politico del Paese è misogino significa tener conto della gerarchia di genere che lo struttura, e dei processi ancora in atto per impedire l’autodeterminazione di intere comunità.
La nostra cultura democratica ha sempre presentato l’autodeterminazione come un valore. Tuttavia, quando questo valore è incarnato e messo in atto da una donna, diventa immediatamente un problema. La Murgia era eccessiva in tutto, si è detto nei giorni scorsi: nei vestiti e nelle parole, quasi a indicare la necessità del contenimento. La sua autodeterminazione era “assoluta”, dove la parola assoluto indica che la sua libertà doveva essere regolata e repressa almeno un po’, per non mettere in imbarazzo un potere politico e culturale ancora profondamente patriarcale. È per reprimere l’orgogliosa pratica della libertà e dell’autodeterminazione che la Murgia è stata ostracizzata con ogni mezzo necessario. Ed è in questo contesto che si è ammalata e che ci è stata portata via troppo presto.
In questi giorni di lutto, la domanda che dobbiamo porci è: quale mondo vogliamo, dopotutto? Vogliamo un mondo in cui le condizioni materiali e sociali rendano possibile l’autodeterminazione, nel suo modo più profondo e radicale, la capacità di creare uno spazio pubblico e collettivo in cui ognuno possa diventare se stesso/a, dentro o soprattutto fuori dalle tracce che ha imposto solo determinati comportamenti o identità come legittimi? Non vogliamo solo una famiglia queer ma un mondo queer, in cui le differenze possano convivere gioiosamente, trasformando l’inclusione in un processo di pedagogia pubblica in cui comunità diverse possano conoscersi e contaminarsi. È questa idea del mondo che fa paura. È questa idea radicale di autodeterminazione che ha fatto di Michela Murgia un bersaglio. Ma è anche l’idea del mondo che l’ha resa un’intellettuale così amata. La sua capacità di incarnare e recitare la libertà è ciò che abbiamo imparato ad amare di lei ed è uno dei suoi principali lasciti: l’urgenza di un mondo possibile da costruire.