domenica, Dicembre 22, 2024
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Lo sbalorditivo museo nel deserto che ospita capolavori dell’avanguardia russa

AGI – Il deserto del Karakorum in Asia Centrale deve la propria fama alle vicissitudini affrontate da coloro che dovettero attraversarlo ai tempi della Via della Seta. Da allora è conosciuto come uno dei luoghi più inospitali al mondo: una distesa senza fine di sabbie rosse e sterpaglie secche, piegate da un sole cocente che offusca vista e cervello al punto da causare allucinazioni. E un’allucinazione è la prima cosa a cui pensano i visitatori quando, al termine di un faticoso viaggio, mettono piede nel museo di Nukus. In questa oscura località si trova una delle collezioni meno conosciute, eppure la seconda più grande al mondo di quadri dell’avanguardia russa dopo il museo di San Pietroburgo. Un luogo così stupefacente la cui storia si intreccia con quella di Igor Savitsky, un artista e collezionista braccato dal regime sovietico e una città, Nukus, così lontana e isolata, da prestarsi magnificamente per la parte del luogo dove nascondere il tesoro. 

 

Considerata la capitale della repubblica autonoma del Karakalpakstan, parte dell’Uzbekistan, Nukus giace nella desolata parte ovest del Paese. Da un lato le temperature, caldo cocente d’estate e freddo estremo d’inverno, dall’altro un panorama desolato caratterizzato da una monotonia che spegne la mente e sottrae energia. Circostanze eccezionali che potrebbero essere sfruttate da chi vuole compiere esperimenti nucleari, non da chi voglia aprire un museo. A meno che non si voglia tenere lontano da occhi indiscreti la propria collezione, come appunto desiderò l’artefice di tutto questo: Igor Savitsky.

Gli anni di Stalin furono infatti a dir poco difficili: l’arte doveva essere facile da comprendere, innalzare il ruolo dei lavoratori ed esaltare lo Stato. Di conseguenza le purghe non risparmiarono numerosi artisti che si cimentavano con l’astrattismo e le avanguardie. Molti finirono in rovina o morirono nelle carceri e nei gulag, lasciando le proprie opere in soffitta e le proprie famiglie in miseria. Lungi dal voler sfruttare le difficoltà di queste famiglie, anzi egli stesso indebitato fino al collo, Savitsky prese a girare le case dei tanti artisti finiti in disgrazia, acquistò quadri dimenticati in polverose soffitte e cantine dalle vedove di pittori spediti in Siberia e li salvò dall’oblio restaurandoli personalmente. I controlli del regime erano serrati e le conseguenze drammatiche, ma il centro del partito era a Mosca e il quartier generale dell’Uzbekistan a Tashkent, distante più di mille chilometri di deserto. Nukus era lontana, oscura, isolata, strategicamente insignificante, praticamente perfetta per portare questa collezione lontano da occhi indiscreti e il collezionista lontano dai gulag.

Ma chi era Savistky? L’uomo che con questa idea folle ha creato uno dei musei più sbalorditivi del mondo era nato a Kiev nel 1915, ma era cresciuto a Mosca, dove la sua facoltosa famiglia aveva deciso di trasferirsi in seguito alla rivoluzione. Cresciuto con il sogno di diventare un pittore finì in Uzbekistan negli anni della guerra. In Asia Centrale Savitsky subisce il fascino dei colori del deserto e dei tramonti sulle antiche architetture delle città di Bukhara e Samarcanda di cui riproduce sfumature e atmosfere, come meglio gli riesce. Tornato a Mosca decide di mostrare le proprie opere a Robert Falk, un pittore da lui considerato un maestro, che pero’ non apprezza i quadri di Savitsky e glielo dice senza giri di parole. Incassato il colpo Savitsky torna in Uzbekistan e inizia a collezionare manufatti, copricapi e gioielli del Karakalpakstan e della Coresmia. Con queste opere di artigianato, considerate innocue dal regime sovietico, Savitsky apre il primo museo nel 1966 e, lontano dagli occhi di Mosca, inizia a collezionare quadri. Il collezionista si imbatte quasi per caso nella possibilità di acquisire un quadro di Alexander Volkov, uno dei più importanti artisti uzbechi finito nel giogo staliniano. Etichettato come “anti rivoluzionario” per non essersi piegato ai canoni del “realismo sovietico” trascorse l’ultima parte della propria vita in isolamento.

Acquistati i quadri del povero Volkov, Savitsky ha un’intuizione che lo porta a trascorrere i seguenti 20 anni viaggiando per l’Uzbekistan alla ricerca di opere relegate nella polvere e nel dimenticatoio di nascondigli, scaffali, cantine e soffitte. Questa la genesi del museo di Nukus, un centro d’arte figlio di un artista incompiuto che lottò per dare visibilità e riconoscimento ad artisti, la cui carriera fu spezzata dalle circostanze politiche e decise di salvarne le opere nascondendole nel mezzo del deserto. Un uomo che da solo, guidato da una idea visionaria, decise di portare nel deserto tutte le opere che era riuscito a salvare e recuperare. Savitsky morì nel 1984 con i polmoni distrutti dalle sostanze con cui restaurava i quadri. Si dice che al medico che gli comunicò che stava per morire disse “Non posso! Ho ancora un sacco di debiti da pagare”. La sua ossessione erano i debiti contratti con le famiglie degli artisti caduti in disgrazia. Una lunga lista che i suoi discepoli che hanno preso in mano le redini del museo hanno onorato, come da lui stesso richiesto.

 

 

 

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