martedì, Luglio 2, 2024
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GLI SGUARDI LIBERI E DISINVOLTI DI “PRAY FOR PRIDE”

Pregare per il Pride? Così ironicamente il giovanissimo curatore Alfonso Umali presenta la sua prima esposizione dal titolo Pray for Pride, una collettiva di ventidue artisti d’eccezione alla storica galleria d’arte Gli Eroici Furori in via Melzo 30 a Milano, in occasione del Gay Pride.

Pray for Pride é una mostra ispirata – come sottolinea lo stesso Alfonso Umali – dalle ultime esternazioni pubbliche di Papa Francesco rispetto la comunità LGBTQ+, una risposta reazionaria per dare risalto alla libertà sessuale e ai diritti gay, attraverso le opere proposte dagli artisti coinvolti. I ventidue artisti che partecipano a Pray for Pride hanno seguito, ognuno con il proprio stile, il fil rouge per dar vita a questa collettività che pone l’attenzione sul mondo queer in tutte le sue sfumature. Gli artisti che partecipano sono: Dario Arcidiacono, Stefano Banfi, Felipe Cardeña, Paolo Cassarà, Federico Crespi, Francesco De Molfetta, Federico Laddaga, Max Ferrigno, Sara Forte, Ambra Grande, Alessandro Grimoldieu, Gabriella Kuruvilla, Alessandro Manvanti, Mataro Da Vergato, Florencia Martinez, Carla Mura, Anna Muzi, Tomoko Nagao, Elena Ovecina, Max Papeschi, Andrea Saltini, Leone Solia, Giuseppe Veneziano

In attesa dell’ inaugurazione non ci resta che pregare, quindi… nel frattempo abbiamo scambiato due domande con Alfonso Umali per conoscere meglio il suo punto di vista. 

Pray for Pride è la prima mostra collettiva da te curata, come hai affrontato la selezione degli artisti partecipanti?
La mostra è nata pian piano. Posso dire che sia venuta fuori in maniera quasi collettiva, con alcuni amici artisti, infatti, volevamo fare qualcosa in occasione del Pride, sul tema della difesa dei diritti, della libertà, della sessualità. Già in passato, io ho partecipato al Pride con alcuni amici, anche se negli ultimi anni, insieme alla Crew di Felipe, ho avuto modo di realizzare delle performance elevando dei cartelli. L’anno scorso, sempre con alcuni amici artisti, avevamo messo in piedi una piccola mostra in una delle vie più frequentate dalla comunità LGBTQ+, in zona Porta Venezia. Così, quest’anno, sempre con un gruppo di amici artisti, abbiamo deciso di mettere in piedi una mostra più ampia e più strutturata, e io ho chiamato una ventina di artisti di cui già conoscevo bene il lavoro a esprimersi su questi temi. Una caratteristica che vorrei sottolineare è che, benché molti artisti invitati abbiano già una loro storia e un loro peso nel sistema dell’arte, altri sono invece alle prime armi: ho volutamente cercato di creare un mix in cui le voci più mature si confrontassero con altre più giovani e più fresche, inglobando quindi diverse generazioni.

Da dove nasce l’intuizione del titolo della mostra Pray for Pride?
Il titolo della mostra nasce d’istinto, quasi per scherzo, quando cercavo di trovare il nome giusto per una mostra che fosse anche ironica e provocatoria rispetto a temi impegnativi e seri come quelli dei diritti e del loro rapporto con i dogmi e gli steccati che a volte le istituzioni, a cominciare dalla Chiesa, impongono. Volevo creare una mostra che fosse libera, disinvolta, e che includesse non solo opere che trattassero i temi dei diritti della comunità LGBTQ+, ma anche la sessualità, l’omoerotismo e l’erotismo in generale. Se ci pensiamo, anche solo 60 anni fa la sessualità era un argomento tabù: pensiamo al documentario di Pier Paolo Pasolini Comizi d’amore, del 1964, che raffigura perfettamente il periodo storico, dunque le difficoltà e le paure delle persone di parlare liberamente di sesso. Guardandolo, mi sono reso conto di come la gente all’epoca trattasse la sessualità come uno scandalo. La cosa curiosa è che Pray for Pride mi è venuto in mente in un lampo, e neanche una settimana dopo, su tutti i giornali è venuta fuori la gaffe di Papa Francesco sulla frociaggine… da lì l’argomento è esploso, e anche gli artisti si sono sbizzarriti a darmi opere che riguardano, spesso in maniera molto ironica e dissacrante, il rapporto tra sessualità, Chiesa, religione… Quando crediamo di aver fatto un grande passo avanti sul tema dei diritti, a volte dobbiamo constatare che se ne sono fatti anche molti indietro, e che su questi temi c’è ancora molto da fare.

Quale pensi sia il messaggio che arriverà agli spettatori della mostra?
Con questa mostra vorrei comunicare in modo ironico, serio ma anche leggero e divertente – anzi vorrei dire che questa mostra gioca molto sull’ironia –, che noi tutti dovremmo fare delle riflessioni e domandarci del perché l’omosessualità sia ancora un tema così tanto delicato, e perché la lotta per amare liberamente, difendere diritti fondamentali, come il matrimonio tra persone dello stesso sesso (una conquista che in questi giorni anche la Thailandia ha fatto propria), oppure creare una famiglia al di là delle differenze di genere, debba ancora essere fatta. Il Pride ci ricorda di lottare e di essere fieri di quello che siamo, per questo dico: Pray for Pride, preghiamo per il Pride!

Cos’è che rende un’opera d’arte iconica a tal punto da entrare nell’immaginario queer?
Non credo che un’opera, per entrare nell’immaginario queer, debba avere dei canoni precisi, matematici, schematici. Certo una grande importanza la riveste la figura e la storia dell’artista, ma anche il soggetto delle opere ha ovviamente un forte peso: molti artisti, infatti, hanno affrontato il tema omoerotico o addirittura lo hanno portato al centro del loro lavoro; l’esempio più calzante è quello di Robert Mapplethorpe, dove la maggior parte delle fotografie hanno un carattere esplicitamente erotico, ed omoerotico in particolare. Anche alcune opere di Andy Warhol, come la serie Sex Parts and Torsos, sono sicuramente entrate nell’immaginario queer. Ma, benché Warhol fosse omosessuale, non tutte le sue opere venivano categorizzate all’interno di questo immaginario, tant’è che noi lo conosciamo semplicemente come “il padre del Pop” e non certo come artista gay. Lo stesso vale anche per Keith Haring. Credo insomma che i motivi per cui un’opera o un artista rientrino in questo tipo di immaginario siano molto vari. Molto lo fa anche lo sguardo del pubblico, che è del tutto soggettivo e ha a che fare con motivazioni inconsce, mai del tutto chiare o razionali. Forse, un po’ come accade con la forma di cilindri, aste o oggetti lunghi che vediamo all’interno di un sogno, e che per Freud rappresentavano il membro maschile, sta proprio a noi decidere se un’opera possa o meno rientrare in questo tipo di immaginario.

Parlando dei tuoi inizi, come sei approdato a questo mondo artistico?
L’arte mi ha sempre affascinato. Sin da bambino ho sempre sognato di creare, disegnare e dipingere, e molte persone mi hanno incoraggiato nel crearmi un mondo che girasse in qualche modo intorno all’arte. Ricordo che da bambino, percorrendo per le vie di Brera con la mia famiglia, ero meravigliato nel guardare le opere esposte all’interno delle gallerie, anche se per paura o timidezza non ci entravo mai. Ero anche particolarmente attratto dai colorifici: mi ricordo che, nelle vetrine dello storico colorificio Pellegrini, rimanevo ipnotizzato guardando tele e colori, e tra me e me dicevo che un giorno mi sarei comprato tutto il materiale necessario per creare un’opera. Nel tempo, poi, non ho mai smesso di disegnare, sia realizzando disegni tecnici, sia copiando le opere di artisti che trovavo. Da ragazzino, poi, la passione per il disegno aveva trovato una sua possibile sponda nell’idea di fare il tattoo artist, passione che in seguito, però, è andata del tutto persa. Solo più avanti, in realtà, dopo la pandemia, ho cominciato a frequentare maggiormente l’ambiente dell’arte, anche grazie ad alcuni amici che avevo conosciuto nel frattempo, e che mi hanno fatto conoscere meglio le opere degli artisti contemporanei. In particolare, sono entrato in contatto con il progetto legato alle opere dell’artista Felipe Cardeña, che mi ha affascinato molto, riuscendo anche ad entrare all’interno della sua crew e realizzando per lui, e assieme al gruppo di ragazzi che vi gravita attorno, diverse performance e progetti, e lavorando anche ai suoi quadri. Nello stesso periodo ho cominciato a frequentare le gallerie, a confrontarmi con l’arte sul campo, e non solo in maniera teorica. Anche il fatto di approdare all’Accademia di Brera, dove studio tutt’ora, ha contribuito a una mia sempre maggiore conoscenza dell’ambiente dell’arte e alla mia crescita personale, artistica e culturale.

Quali sono stati gli artisti che hanno maggiormente stimolato la tua ricerca espressiva? 
Sono molti gli artisti che mi hanno stimolato e che tutt’ora mi ispirano. Caravaggio in particolare è un artista che ho sempre amato moltissimo, per il suo essere un formidabile anticipatore. Per il suo particolare utilizzo della luce mi è sempre sembrato un vero e proprio “fotografo” della realtà, duecento anni prima che la fotografia venisse inventata. Altri artisti che hanno avuto un grande impatto su di me sono quelli che hanno lavorato sull’erotismo, sul corpo, sul nudo. La Chapelle, in particolare, mi ha colpito perché è riuscito a unire il pop, la sensualità, la corporeità all’interno di un solo scatto. Di Araki, invece, mi ha sempre affascinato l’uso del corpo come catalizzatore di tensioni, di desideri repressi e nascosti. Non tralascerei anche interi periodi storici: l’età classica, il Rinascimento e il Barocco in particolare hanno stimolato la mia curiosità e il mio interesse. L’emozione che provo entrando in un museo, quando vedo un quadro rinascimentale o una scultura classica, o quando varco la navata centrale di una chiesa gotica, non è paragonabile (quasi) a nessun’altra sensazione.

Quando ti sei avvicinato, invece, alla scrittura e alla critica d’arte? 
È stato un po’ casuale: come capita a molti ragazzi, cercavo di sperimentare, di provare diverse strade. Così, qualche anno fa mi è arrivata l’occasione di scrivere i primi pezzi per una rivista cartacea, ArteIn. Volevo raccontare l’arte dal punto di vista di un normale ragazzo di 19, 20 anni che si trova a confrontarsi con un sistema così articolato, ramificato, come quello dell’arte. A me interessava scrivere d’arte, ma anche di musica, di ciò che vedo su internet, insomma di quello che un ragazzo come me è avvolto ogni giorno, e raccontarlo dal punto di vista di chi vive tutto questo. Volevo insomma cercare di testimoniare il rapporto della mia generazione con la musica, con il cinema, con l’immagine in generale. Così potevo parlare per esempio della trap, o degli incroci tra arte e musica, come quando uscì l’album di Fedez Disumano, la cui cover era realizzata da Francesco Vezzoli, lo stesso artista che poco prima aveva ritratto Chiara Ferragni nei panni della Madonna del Sassoferrato. Poi, più tardi, ho cominciato a collaborare con il magazine on line Artuu, con cui collaboro tutt’ora, che mi piace molto perché è una rivista che sa parlare d’arte, di musica, di cinema e di estetica diffusa a tutti,anche alle generazioni più giovani come la mia.

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