La fotografia di Federica Palmarin si contraddistingue per i colori accesi, i soggetti caratteristici e l’ironia dissacrante.
Federica Palmarin è tra le fotografe, artiste e registe più incisive del panorama Nazionale, cresciuta tra Venezia e Mauritius, è stata tra gli artisti in residenza selezionati da Fabrica di Benetton affermandosi come fotografa e fotoeditor per la storica rivista Colors ideata da Oliviero Toscani. Con il mezzo della fotocamera e del video Federica affronta tematiche che aprono dibattiti e riflessioni, come i suoi reportage nelle carceri e il suo documentario Bhopal 25 Years Later incentrato sul disastro ambientale avvenuto in India. Abbiamo avuto modo di porle qualche domanda sulla fotografia e sulle tematiche LGBTQIA+, sul mondo delle Drag e sulla sua serie Medusa a Cà del Console.
Cosa ti ha colpito delle Drag Queen?
La forza, l’unicità, le abilità performative, coreografiche, interpretative e soprattutto il non riferirsi ad un unico genere. Il mio interesse ha a che fare con l’originalità degli esseri umani, l’esser raro, la potenza di rompere gli schemi. Pensiamo a Nietzsche e alla sua riflessione sul quadrifoglio: dal punto di vista Darwiniano il quadrifoglio è considerato “diverso” dalla famiglia di origine, giudicato dal punto di vista evolutivo viene descritto come manchevole, ma basta cambiare punto di vista per apprezzare la rarità e la potenza. Mentre la visione Darwiniana tende a sottovalutare l’importanza dell’individualità e della forza e vede le caratteristiche individuali solo in termini di adattamento e sopravvivenza della specie, Nietzsche enfatizza l’importanza della potenza e della volontà di potenza dell’individuo che va oltre l’adattamento. Il quadrifoglio che per gli evoluzionisti è variazione insignificante della selezione naturale, diventa simbolo di potenza individuale e di eccezionalità, sono quindi naturalmente attratta da tutto ciò che rappresenta questa potenza in qualsiasi ambito, sia fotografico, letterario, cinematografico, ed è decisamente questo che mi attrae del mondo Drag.
Quando hai scoperto il mondo Drag?
Fui battezzata in età adolescenziale al Chez Michou, di Pigalle, Parigi, un Cabaret virtuoso dove ho assistito alle migliori interpretazioni di Edith Piaf, e altre celebrità internazionali. Ricordo che a mezzanotte chiusero le porte, nessuno poteva più uscire o entrare , il palco si trasformò in teatro… fu una esperienza indimenticabile che influenzò molto il mio immaginario iconico, erano gli stessi camerieri che scomparsi dalla sala salivano interpreti sul palco. Molti anni dopo dopo ci fu l’Amazing Show, dell’isola di Cebu nelle Filippine, dove ho realizzato splendidi ritratti in grande formato. Tutti gli artisti con cui ho lavorato e a cui ho assistito agli spettacoli sono autori del costume, del make up, acconciatura, direzione artistica, scelta soggetto, il mondo Drag è molto competente in tutti questi livelli, la trovo una vera espressione artistica.
Come scovi i tuoi soggetti?
La fotocamera è uno dei tanti strumenti che fornisce una licenza per scoprire il mondo. L’ universo in cui vivo è traducibile in una grande enciclopedia iconografica, e, a volte per necessità personale, curiosità, commissione, o anche per via delle lettere mancanti nel grande libro della conoscenza, sono mossa verso l’altro, un modo anche di uscire da alienazione e dal solipsismo. Tendo a lavorare in modo seriale , i miei progetti sono risultato di una relazione di tipo narrativo: contatto i soggetti, li ritraggo, li descrivo… altre volte sono io a creare i personaggi.
Perché prediligi il colore?
Molti dei soggetti che fotografo sono già delle opere d’arte viventi e attraverso l’uso del colore posso dare un’impronta realista o iperrealista. Spesso non ho la necessità di reinterpretarli con l’uso di una lente deformante o l’uso del bianco e nero, preferisco i soggetti naturalmente Pop ma con una lettura che si riferisce alla pittura classica. Anche il colore è strumento di ricerca, ricordo alla fine degli anni 90 inizio 2000, il Cross Process, portava colori saturati, poco dettaglio nei neri e una interessante e imprevedibile cromaticità. Ricordo che ero disposta a molte ricerche per trovare una Kodak panther scaduta nel 1987. Certo che poi usciva un cross da paura… l’utilizzo del bianco nero o del colore è un modo di vedere, se decido di utilizzare il bianco e nero, è una scelta che faccio in ripresa, mai in seguito desaturando o trasformando i file in scala di grigio. Per me scattare in bianco e nero, vuol dire vedere in bianco e nero, in linea di massima preferisco vedere i toni come se fosse una pellicola.
Cosa vuoi comunicare con la fotografia?
Alla base c’è la necessità di condividere ciò che ho visto, il mio vissuto, le mie visioni , le mie intuizioni. Se non ho un committente, non penso mai allo spettatore, la fotografia diventa un modo per scavare nel mio inconscio, per riconoscermi negli altri, affermarmi, o negarmi, la fotografia come dice Roland Barthes è unicità ripetibile all’infinito.
Come nasce questa serie “Medusa a Cà del Console”?
Eravamo al Lido di Venezia, durante una serata di presentazione di un mio cortometraggio, rimasi affascinata dal suo sguardo e dallo stile impeccabile. Mi avvicinai e gli chiesi se voleva lavorare con me. Abbiamo collaborato per diversi redazionali, poi conosciuto Medusa, chiesi di posare tra gli arredi d’epoca di Cà del Console, un palazzo affacciato su canale di Santa Marina e realizzai dei ritratti stampati in grande formato per una esposizione in città.
I prossimi progetti?
Da sempre affascinata ai temi religiosi, sto finalizzando dei progetti video fotografici su dei festival religiosi che riguarda l’ iconografia sacra e il sincretismo.