giovedì, Novembre 21, 2024
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DANIELE VANNINI: CHIAROSCURO TRANSGENDER

Le sue opere fotografiche raccontano l’umanità nel suo aspetto più vero e nudo. Il mondo transgender è il suo soggetto preferito perché sa raccontare gioia e sofferenza allo stesso tempo. 

Daniele Vannini si affaccia attraverso la fotografia a realtà sotterranee, perversioni umane, transazioni e trasformazioni corporee, con uno sguardo notturno scatta in bianco e nero raccontando le vite estreme dei soggetti che ricerca istintivamente nei più variegati contesti. Nato a Milano nel 1984, inizia la sua carriera come fotogiornalista, pubblicando sui più importanti quotidiani nazionali e su testate estere. La fotografia di Vannini è dirompente, audace, senza mezzi termini affronta tematiche come l’emarginazione, la libertà sessuale, le deviazioni, lo squilibrio e il grottesco. Immagini destabilizzanti, con un’estetica oscura pregna d’inquietudine come un film di Murnau.

Daniele, partiamo dall’inizio. Qual è la tua visione fotografica?
La fotografia per me è un ottimo pretesto per entrare in contatto con le persone e con quello che stimola la mia curiosità. Allo stesso tempo è un modo per conoscere me stesso, sentirmi libero, aperto verso quello che sento e che sono.

Quali sono gli artisti e fotografi che hanno contribuito a nutrire la tua passione e che hanno stimolato la tua fantasia?
Anders Petersen, Araki, Daido Moriyama, Jacob Aue Sobol, Weegee, Jacopo Benassi, Diane Arbus, Christer Strömholm, Antoine d’Agata e Ando Gilardi, del quale inoltre consiglio di leggere Wanted. E poi Richard Avedon, Irving Penn, Ugo Mulas, Helmut Newton. E questi sono solo alcuni dei fotografi, ci sarebbero poi pittori, scultori, registi, scrittori, musicisti. Ma alcune delle migliori ispirazioni mi arrivano da persone che non c’entrano nulla con l’arte e la fotografia. Anche una chiacchierata con uno sconosciuto incontrato per strada può cambiarti il modo in cui osservi il mondo.

Cos’è che ti ha spinto ad avvicinarti alla realtà dei transgender per raccontarla fotograficamente?
Sempre la curiosità. E un po’ di fortuna. Il tutto infatti è partito da un incontro avvenuto per caso un giorno del 2016 a Milano. Ho conosciuto una donna trans durante una manifestazione e ho avuto modo di scambiarci quattro chiacchiere. Ne sono rimasto profondamente affascinato, così qualche tempo dopo l’ho contattata, spiegandole che avrei voluto saperne di più sul tema della disforia di genere, e che in quanto fotografo desideravo realizzare un lavoro sull’argomento. Per mia fortuna quella donna era ed è Antonia Monopoli, responsabile dello sportello trans di ALA Milano, la quale ha accolto la mia idea e mi ha aiutato a mettermi in contatto con le prime persone. Da quel momento é iniziato un viaggio che continua ancora oggi.

Foto di: Daniele Vannini

Scatti prevalentemente in bianco e nero. Perché hai scelto di seguire questa linea stilistica?Da un punto di vista pratico, quando Osservo una scena la osservo sempre in termini di contrasti “chiaro scuro”, quindi ragiono già in bianco e nero prima ancora di scattare la fotografia. Ma a parte questo, Il bianco e nero si distacca dal modo in cui noi osserviamo il mondo, appunto a colori. Permette un’interpretazione molto diversa e più personale dell’immagine. In un certo senso si può dire che, con il bianco e nero, i colori originali della scena vengono sostituiti dai colori della nostra percezione ed immaginazione, che sono potenzialmente infiniti. Questo per me è impagabile.

Cosa vuoi trasmettere all’osservatore? Qual è il messaggio che ti sta più a cuore venga recepito?
Faccio quello che faccio perché amo farlo. In quanto artista, quando si parla del mio lavoro sono egocentrico ed egoista, nel senso che il tutto ruota ad un mio interesse personale che se non ci fosse non mi farebbe agire, e poco mi importa del resto. Detto questo, un messaggio c’è, ed è “Lasciatevi incuriosire, non chiudetevi nel vostro piccolo mondo e vivete”

C’è stato un particolare set fotografico che ti ha in qualche modo “destabilizzato”?
Destabilizzato in positivo. Lavorando sul tema della disforia di genere ho trovato il mio linguaggio/stile fotografico. È stato allora che ho iniziato ad utilizzare il flash diretto sul soggetto, una vera e propria epifania. Non è solo la luce in sé, ma tutto quello che comporta utilizzare questo genere di illuminazione, in particolare i suoi limiti, che per me ha fatto e fa la differenza. Diciamo che in quei limiti io ho trovato la mia libertà.

Quali sono i soggetti che prediligi?
Amo le persone e le loro storie. Amo chi desidera esprimere la propria identità senza mezze misure. Amo il corpo e la sessualità, ne sono profondamente attratto. Detto questo, posso fotografare qualunque cosa. Non c’è una regola, se non che mi incuriosisca per qualche motivo. Ad esempio, qualche tempo fa sono stato in un rettilario, ed ho passato dieci minuti a fissare un serpente, senza far nulla. Dopo quei dieci minuti, ne ho passati altri cinque a fotografarlo.

Attualmente dove si direziona la tua ricerca artistica?
Sto imparando sempre di più a lasciar fluire gli eventi e ad accettare quello che la vita mi propone. Attualmente lavoro principalmente di notte frequentando locali, club, ma anche semplici bar, in una serie di situazioni che mi piace molto esplorare, iniziate “per caso” ma che quando si sono presentate ho accolto a braccia aperte, mosso dalla curiosità. Detto questo, per me la fotografia resta una sorta di viaggio esistenziale. Chi sono io? Chi sono gli altri? Cosa sono le emozioni, i sentimenti, e le contraddizioni che ognuno di noi si porta dentro? E la cosa importante non è la risposta a queste domande, bensì il percorso che mi spingono ad intraprendere.

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