domenica, Dicembre 22, 2024
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Alluvione in Romagna, in carrozzina a spalare il fango tra i volontari arrivati a Forlì | A Tgcom24: “Non sono un eroe”

Simone Baldini, 42 anni, disabile dal 1997 per un virus al midollo spinale, si è unito ad amici che partivano da Pesaro per portare viveri e aiuti alla popolazione sommersa dalle acque. Sua la foto-simbolo della solidarietà: ecco il suo racconto

Pala in mano e le ruote della carrozzina immerse nel fango a liberare da acqua e melma le strade di Forlì insieme ai cittadini vittime dell’alluvione in Romagna.

Ma qualcuno dei presenti gli scatta una foto che diventa l’immagine simbolo della solidarietà dei cosiddetti “angeli del fango”, accorsi da tutta Italia per dare aiuto e sostegno concreti. Questo è accaduto a Simone Baldini, 42 anni, originario di Roma ma residente a San Marino, atleta paralimpico (in passato gare di handike con Alex Zanardi, triathlon con titolo europeo e canottaggio), disabile dal 1997 per un virus che ha colpito il midollo spinale. Era andato lì in anonimato con un gruppo di Pesaro ma si è trovato al centro del clamore mediatico.

Non sono un eroe, ho semplicemente fatto quello che potevo e ho reso quello che ho sempre ricevuto nella mia malattia”, precisa subito a Tgcom24, a cui racconta quella giornata a spalare fango. “E se il mio gesto può essere d’esempio, ben venga”, sottolinea. “Se tornerò? Certamente, lì c’è da fare ancora per settimane. A Forlì, Cesena, Ravenna, non so. Di sicuro, dopo tutto questa ribalta non posso tirarmi indietro e farmi dire dietro che ero lì solo per pubblicità”, aggiunge sorridendo.

Dopo la foto scattata domenica a Forlì, cosa è accaduto?
“Io ero lì ad aiutare, come gli altri. Seguivamo il flusso dei volontari chiedendo in giro ‘C’è bisogno? C’è bisogno?’ ed entravamo nelle case di chi ha perso tutto sotto 4 metri d’acqua. Poi qualcuno mi ha scattato quella foto, mentre ero di spalle, nel fango. Non me ne ero accorto, ma quell’immagine ha iniziato a circolare in maniera incontrollata. Alla sera, a casa, dopo circa sei ore di lavoro a Forlì, ho iniziato a ricevere numerosi messaggi e telefonate da chi mi aveva riconosciuto. Pensi che neanche i miei genitori sapevano che ero lì quel giorno: sono andato in anonimato e mi sono ritrovato al centro del clamore mediatico”

E ora?
“Tornerò presto lì. C’è ancora tanto da fare. E poi proprio ora non posso tirarmi indietro, altrimenti mi verrà detto che ero a Forlì per farmi pubblicità. Niente di più lontano dalla mia volontà”.

Perché?
“Sono cresciuto in una famiglia molto sensibile alla solidarietà. Mio padre è un vigile del fuoco in pensione e ha operato in tantissimi teatri di emergenza, a partire dal terremoto in Irpinia. E raccontava a casa le sue esperienze, la gente che ha aiutato. Sono stato educato così e anche la malattia che nel 1997 mi ha fatto perdere l’uso delle gambe non mi ha fermato. Mi sono interessato a corsi di soccorso della Croce Rossa, volevo entrare in Protezione Civile. Insomma, voglio sempre restituire tutto quello che mi è stato dato e le mie condizioni non mi fermano, anche se può immaginare come sia stato complesso muoversi per quelle strade alluvionate”.

Lei è anche un atleta paralimpico. Il suo fisico l’ha aiutata?
“Sicuramente. Stare lì per sei ore a non risparmiarsi non è stato facile, ma, quando dai aiuto, la fatica non la senti. E per me, ripeto, è stato un po’ come sdebitarmi della vicinanza che ho sempre ricevuto e ricevo. E’ stata la mia prima esperienza in un teatro di calamità naturale, ma chiamarmi ora ‘eroe’ mi sembra esagerato”.

Com’è andata quella domenica da “angelo del fango”?
“Mi sono unito a un gruppo di volontari di Pesaro, dove il maltempo ha pur colpito in quei giorni, ma, fortunatamente, stavolta, non così duramente come in Romagna. Siamo arrivati a Forlì, tutti attrezzati, intorno alle 11; abbiamo raggiunto un campo base, abbiamo distribuito i generi di prima necessità che avevamo portato con noi e ci siamo divisi per aiutare a sgomberare case e strade. Interi quartieri sono andati completamente sotto metri d’acqua. Chiedevamo in giro se c’era bisogno e ci fermavamo dove serviva. Così per sei ore. Senza pensare alla mia disabilità, alle mie difficoltà. Non posso dire di aver lasciato una situazione diversa da quella che ho trovato, ma l’importante in questi casi è fare comunque qualcosa e il mio aiuto non sarà stato inutile, anche se lì c’è da lavorare per settimane ancora”.

Foto a parte, cosa ha portato con sé da questa esperienza?
“Ho vissuto una crescita personale che è difficile da spiegare ed è più forte la voglia che ho sempre avuto di poter fare qualcosa per gli altri”.

Cit TGCOM24

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