AGI – Un appello per la pace scritto in tre lingue, turco, curdo e inglese, con al centro una grande foto della delegazione e il leader del Pkk. Abdullah Ocalan. Questo lo sfondo a un annuncio che potrebbe mettere la parola fine a 40 anni di conflitto tra la Turchia e i separatisti curdi del partito dei Lavoratori del Kurdistan. Un conflitto costato la vita a circa 50 mila persone. “Il Pkk ha esaurito il proprio ciclo, invito tutti i gruppi armati a convocare un congresso e sancire lo scioglimento dell’organizzazione”, è stato il messaggio che tutti aspettavano, letto in tre lingue (prima in curdo) dalla delegazione del partito Dem (ex Hdp ndr), che ha avuto l’incarico di portare avanti il dialogo con Ocalan, rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Imrali dal 1999.
Il leader del Pkk ha aperto la lettera-appello con dei riferimenti al socialismo che l’organizzazione ha sempre professato ma ormai irraggiungibili, per poi giungere alla conclusione che, alle condizioni attuali, la guerra non ha più senso e non deve più essere portata avanti. Ocalan ha ringraziato tutti coloro che “non vedevano l’ora di arrivare alla pace” e si è assunto “la responsabilità dinanzi la storia della decisione di sciogliere il Pkk”. Il leader curdo ha fatto riferimento alle condizioni che lo hanno spinto a chiedere la pace, ovvero “la voglia mostrata dal presidente Recep Tayyip Erdogan” e “l’appello di Devlet Bahceli” (leader del partito nazionalista MHP ndr). Non scontato che Ocalan citasse due che lo hanno combattuto per anni, ma la verità è che senza Erdogan e il suo alleato nazionalista questa pace non sarebbe mai arrivata.
Come ricordato da Ocalan tutto il processo è nato da un’apertura a sorpresa di Bahceli, 77 anni, che ha trascorso la propria intera carriera politica cavalcando una linea oltranzista nei confronti dei curdi e dal 2015 è un alleato essenziale di Erdogan. Il meno atteso dei personaggi della scena politica turca, nell’incredulità generale, lo scorso ottobre ha teso la mano ai Dem, chiesto la pace e addirittura la fine dell’isolamento di Ocalan. Parole che hanno spianato la strada al dialogo e rotto gli anni di isolamento in cui versava il leader curdo. Un altro tassello per la pace era stato messo lo scorso 17 febbraio, quando la delegazione Dem che ha incontrato Ocalan si è recata in nord Iraq per incontrare il leader del Kurdistan iracheno, Masoud Barzani, che ha promesso “massimo impegno” per la pace.
Un passo importante perché è proprio sulle montagne del nord del Kurdistan iracheno che la guerra tra l’esercito turco e il Pkk è andata avanti senza tregua. Qui il Pkk ha ancora le proprie basi, depositi di armi e rifugi; sempre in nord Iraq l’esercito turco ha attaccato ripetutamente, arrivando a costituirvi anche degli avamposti. Operazioni avallate dal leader curdo Barzani, molto più amico di Erdogan che del Pkk, ma che in anni di conflitto hanno inferto duri colpi ai separatisti dando però l’impressione che non vi fosse mai una fine. La resistenza del Pkk, eradicata in territorio turco quasi del tutto, sulle montagne è andata avanti. In attesa di vedere se le operazioni in nord Iraq continueranno a pesare sul processo di pace ci sono i commissariamenti dei comuni curdi da parte del ministero degli Interni turco, ben 12 dopo le elezioni di un anno fa. Sindaci destituiti proprio per presunti legami con il Pkk; provvedimenti impopolari che hanno spinto la popolazione a protestare, la polizia a intervenire e hanno fatto salire la tensione in diverse città curde.
La pace con il Pkk non sembra inoltre soddisfare tutti e come spesso accade in Turchia si è creato subito un fronte del no. Rappresentanti e sostenitori dei partiti di opposizione Chp, Iyi parti e Vatan, oltre ai media legati a questi ultimi, hanno parlato di “tradimento” nei confronti delle famiglie delle vittime (che hanno protestato), messo in discussione le reali intenzioni di Erdogan e accusato il governo turco di “scendere a patti con il capo dei terroristi”. Il canale Fox in Turchia, Now TV, ha parlato di un piano per rendere Ocalan parlamentare e la Turchia federale. Un progetto che una larga parte del Paese considererebbe un vero e proprio tradimento.
Critiche molto simili a quelle con cui l’opposizione attaccò Erdogan nel 2012. Il leader turco, premier all’epoca, riuscì insieme ai Dem (all’epoca HDP) a mediare un cessate il fuoco con Ocalan che sancì una tregua di più anni. Anche all’epoca la pace, seppur temporanea, fu sancita attraverso una serie di incontri con Ocalan in carcere. Il cessate il fuoco naufragò proprio in seguito alla sconfitta elettorale rimediata da Erdogan nelle elezioni del 2015. La ripresa degli scontri fu, al contrario, un fattore che permise a Erdogan di formare un governo grazie all’appoggio di Bahceli, all’epoca uno dei più grandi nemici della pace con il Pkk.
A favorire questo nuovo processo di pace è però stavolta non solo il cambio di rotta di Bahceli, ma la necessità della Turchia di porre fine agli scontri ai propri confini in un momento in cui la situazione in Medio Oriente è tesa e incerta. Preoccupano gli sviluppi in Siria, ma il governo turco teme anche che il Pkk possa diventare uno strumento nelle mani di Israele. Lo Stato ebraico sostiene l’organizzazione curda e ha lanciato diversi messaggi ai separatisti che hanno fatto scattare l’allerta ad Ankara. Erdogan teme che l’aggressività di Israele a Gaza, Libano e Siria possa avere ripercussioni sulla Turchia e vuole liberare l’esercito da un conflitto che nelle montagne del nord Iraq non sembra avere fine e che al Paese aggiunge solo lutti e bandiere coperte da bare.