giovedì, Dicembre 26, 2024
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Il cervello dei gatti invecchia come quello umano

AGI – Quando i gatti invecchiano, il loro cervello mostra segni di atrofia e declino cognitivo che assomigliano più al deterioramento osservato negli esseri umani che ai cambiamenti nel cervello dei topi anziani. Lo rivela uno studio guidato da Christine Charvet, neuroscienziata comparata presso l’Auburn University College of Veterinary Medicine, in Alabama, presentato il mese scorso alla Lake Conference on Comparative and Evolutionary Neurobiology.

 

I risultati sono parte di un ampio progetto, denominato Translating Time, che confronta lo sviluppo del cervello in oltre 150 specie di mammiferi e che ora si sta espandendo per includere dati sull’invecchiamento. La speranza è che i dati aiutino i ricercatori a cercare di decifrare le cause delle malattie legate all’età, in particolare quelle che colpiscono il cervello, come la malattia di Alzheimer. “Per affrontare le sfide della medicina umana, dobbiamo attingere a un’ampia gamma di sistemi modello – ha affermato Charvet – gatti, lemuri, topi sono tutti utili: non dovremmo concentrare tutti i nostri sforzi su uno solo”.

Il progetto Translating Time è iniziato negli anni Novanta come strumento per i biologi dello sviluppo. Gli scienziati del progetto hanno compilato dati su quanto tempo impiega il cervello a raggiungere una serie di traguardi dello sviluppo in una varietà di mammiferi e hanno utilizzato questi dati per rappresentare graficamente lo sviluppo relativo di due specie nel tempo. Ciò può aiutare i ricercatori a collegare le osservazioni dello sviluppo animale alla corrispondente età umana.

 

Nel corso degli anni, tuttavia, mentre Charvet presentava questi dati alle conferenze, i ricercatori continuavano a chiederle di ampliare il database per includere anche il modo in cui il cervello cambia con l’avanzare dell’età negli animali. Gli scienziati sono da tempo frustrati dai limiti dei modelli di laboratorio standard quando si tratta di comprendere l’invecchiamento umano e il suo impatto sul cervello. I topi vivono solo per pochi anni, non abbastanza a lungo per accumulare gran parte del danno che si pensa determini alcune malattie neurodegenerative negli esseri umani.

 

“I topi potrebbero anche possedere meccanismi che mancano agli esseri umani per eliminare grumi di proteine mal ripiegate, chiamate placche, che sono un segno distintivo della malattia di Alzheimer”, ha dichiarato Melissa Edler, neurobiologa comparata presso la Kent State University in Ohio. “La discrepanza evolutiva tra topi e uomini potrebbe essere una delle ragioni per cui gli sforzi per sviluppare terapie per curare la malattia sono spesso falliti – ha evidenziato Elaine Guevara, che studia la genetica evolutiva dei primati alla Duke University di Durham, nella Carolina del Nord – i topi non sviluppano i classici tratti distintivi della malattia di Alzheimer. I loro cervelli sono piuttosto diversi dai nostri”.

 

Gli animali da compagnia potrebbero rappresentare un’alternativa: vivono più a lungo dei topi, condividono l’ambiente con i loro proprietari e sono vittime di malattie umane, tra cui obesità e diabete. Il Dog Aging Project, gestito da ricercatori dell’Università di Washington a Seattle e della Texas A&M University a College Station, segue decine di migliaia di cani da compagnia per saperne di più su come la loro genetica, il loro stile di vita e il loro ambiente influenzano l’invecchiamento, “ma secoli di allevamento hanno influenzato l’invecchiamento e le malattie nei cani. I gatti spesso vivono un po’ più a lungo dei cani, e in genere non sono così fortemente consanguinei per tratti specifici, alcuni dei quali aumentano anche il rischio di malattie”, ha precisato Charvet, che assieme ai suoi colleghi ha raccolto dati da cliniche veterinarie e zoo e ha avviato un’iniziativa, chiamata Catage Project, che chiede ai proprietari di gatti di inviare dati sui loro animali domestici.

 

Finora, gli scienziati hanno raccolto cartelle cliniche e risultati di analisi di campioni di sangue da migliaia di felini e hanno eseguito scansioni cerebrali di oltre cinquanta esemplari. Utilizzando i propri dati e la letteratura pubblicata, la squadra di ricerca sta completando l’analisi secondo la relazione non lineare tra età di gatti ed esseri umani. “Un gatto di un anno, ad esempio, equivale più o meno a un essere umano di 18 anni, ma l’anno successivo, un gatto invecchia solo di circa 4 anni umani, per diventare maturo quanto una persona di 22 anni – ha spiegato Charvet – all’età di 15 anni, un gatto è un ottantenne in anni umani. Alcuni gatti sperimentano un declino cognitivo a quell’età, e le scansioni cerebrali raccolte dal gruppo di ricerca rivelano cambiamenti nel volume cerebrale nei gatti più anziani che rispecchiano quelli osservati negli esseri umani più anziani”.

 

Lavori precedenti hanno anche dimostrato che i gatti possono accumulare placche e grovigli di proteine anomale simili a quelle che caratterizzano l’Alzheimer negli esseri umani. “In definitiva, i ricercatori potrebbero sviluppare una varietà di sistemi modello per diversi aspetti dell’invecchiamento e della neurodegenerazione – ha osservato Edler – sebbene i topi siano modelli mediocri per alcuni aspetti dell’invecchiamento umano, saranno comunque preziosi, perché è molto facile per i ricercatori condurre esperimenti genetici con i roditori”. Altri animali, come i gatti o alcuni primati non umani, potrebbero essere modelli migliori per altri aspetti dell’invecchiamento cerebrale.

 

Caleb Finch, che studia l’evoluzione della storia della vita presso l’Università della California del Sud a Los Angeles, sostiene ulteriori studi sui ratti talpa nudi, Heterocephalus glaber, che vivono sorprendentemente a lungo per essere dei piccoli roditori e hanno tassi di cancro molto bassi. “I gatti sono utili – ha aggiunto Charvet – ma saranno utili solo fino a un certo punto: servono anche altri sistemi modello”. 

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